C’era una volta, a Est del nostro mondo di cemento e crocefissi, un dedalo di stati fantasma fatti di chincagliere kitsh, sbornie di vodka, straccetti laceri e urla da osteria.
Questa giostra di colori era idealmente accosciata in un giaciglio compreso tra l’Europa centrale da un lato e la Russia europea dall’altro: Bulgaria mangiafuoco, Cecoslovacchia a due teste, Romania barbuta, Polonia a quattro gambe, Ucraina spina bifida, Moldavia equilibrista, la gigantessa Russia, i nani Balcani.

Gli europei vetusti ogni sera recitavano la loro lista di preghiere, alimentando i timori e i pregiudizi nella perpetua speranza che questi mostri circensi ed ebbri non diffondessero la propria ombra fino a loro; per questo viaggio però bisogna deporre la maschera politicamente adirata dalla storia e avanzare scalzi come equilibristi.

Solo una striscia di mare più a oriente del nostro terracqueo stivale c’è una terra con le ruote; una carovana di delizioso disordine, di viuzze torturate da tendoni e da infinite roulotte assurde appese al nulla, una terra surreale e di profondi contrasti. Qui vive un popolo stravagante, che designa ieri e domani con una sola parola, che non conosce il verbo avere, che ignora il concetto di eredità. Un popolo in costante diaspora, senza precisa posizione, errante e goliardico, libero di esprimere senza alcun contenimento ogni velleità. Dei senza patria –gli unici al mondo senza patria- ma anche i soli a non aver conosciuto una propria guerra.

Un popolo in cui l’incessante girovagare condensa e si fa pioggia nel Groove trascinante e sporco di fisarmoniche, fiddles, trombe, ottoni sassofoni, cembali e sonorità di cui artisti del calibro di Gregor Bregovic hanno fatto il proprio credo.
Dotati di un senso musicale di profondità indicibile, partoriscono una musica ibrida che richiama i confini del mondo in cui si avvinghiano in un turbinio violento echi arabi e mediorientali, musiche balcaniche e orchestre etniche da matrimonio rom; difficile dire se tzigana o zingara, se gipsy o folk, se suono o spirito.

Dalle stesse nozze immigranti che caratterizzano questi musicisti acrobati, nasce il Gipsy Punk di cui i Gogol Bordello, ensemble di otto artisti capitanati da Eugene Hütz, sembra essere la più sgargiante evidenza.

Allontanatosi dalla repubblica sovietica nel 1986 a causa del disastro nucleare di Chernobyl e approdato a New York, inizia ad attorniarsi di un entourage multietnico di musicisti rock e violinisti, direttori teatrali e percussionisti.

Questa cricca di artisti, tutti evasi dalla loro madre patria e adottati dalla Grande Mela, s’insinua senza alcuna dignità nelle pieghe dei velluti della World Music, del tutto scevra da ogni smania nazional-popolare.

Pur mantenendo in modo gaudente uno status certamente sui generis, in cui contaminazioni atipiche e incursioni punk di gusto settantasettino bruciano in riff reiterati, si levano da certi luoghi comuni divenuti ormai effigi di una cultura no-global casereccia, sdoganandola da intorpidimenti e chiusure con esiti assolutamente viveur e anarcoidi.

“Think locally, fuck globally” potrebbe essere il motto di questo movimento culturale e musicale che da Est in un perpetuo girotondo è terminato a Ovest dove, chissà, forse tutti vissero per sempre felici e contenti.

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