Quattro ragazzi di Athens, Georgia (USA), pubblicano un album inizialmente inosservato ma poi rivalutato anzitutto perché degno sèguito del loro esordio discografico: “Murmur”, un LP che gli fa subito  guadagnare i primi ed inaspettati giudizi positivi (la rivista Rolling Stone lo giudica nientemeno che “disco dell’anno”). Questo accadeva trent’anni fa. Il nome dei quattro georgiani: R.E.M.; quello dell’album dato alle stampe nell’aprile ’84: “Reckoning”.

Registrato nel giro di sole due settimane, il secondo lavoro dei R.E.M. è del tutto avulso dalle sonorità degli esordi (“Radio Free Europe”, singolo dell’81, e “Chronic Town”, EP dell’82) e si rivela più immediato e meno scarno di “Murmur”: Il suono –affidato alla produzione Easter&Dixon– è però lo stesso: povero, monocorde, costruito attorno alla voce di Michael Stipe e al jingle-jangle byrdsiano della Rickenbacher di Peter Buck. Si tratta però di una fase di transizione proiettata verso nuovi orizzonti compositivi che iniziano ad intravedersi già in alcuni brani dell’album in questione. E forse anche per questo “Reckoning” va riascoltato, oggi, col senno di poi.

Già a partire dalla prima traccia (“Harborcoat”) s’intuisce che il passo, rispetto agli esordi, è un altro e lo conferma il nuovo clima di canzoni come “So. Central Rain (I’m Sorry)” (il “papà” dei classici che negli anni a seguire verranno sfornati da Stipe&Co.) e “Time After Time (Annelise)” (probabilmente uno dei pezzi più ispirati del gruppo). Poi ci sono i brani da ascoltare tutti d’un fiato: “Pretty Persuasion” e “Second Guessing”, con i loro refrain concisi e ripetitivi. Ma si tratta di momenti subito stoppati da quello che forse rappresenta uno dei primi capolavori dei R.E.M., “Camera”, che –assieme a “So. Central Rain”– risente dell’improvvisa scomparsa della fotografa Carol Levy, amica della band. Infine non può non mancare l’hit-single (qui a firma di Mike Mills): “(Don’t Go Back To) Rockville”.

“Reckoning”, come molti della produzione R.E.M., rappresenta indubbiamente una pietra miliare quantomeno per il tentativo, da parte della band, di recuperare la tradizione americana, del folk e del rock delle radici; complessivamente è un album malinconico e quasi, emozionalmente, diafano. Acutamente ristampato nel ‘92 (nonché alcuni anni fa, in occasione del venticinquennale) con l’aggiunta di inediti e live-tracks, a distanza di trent’anni è ancora lì: per niente invecchiato e ricco delle sue gemme di rara intensità.

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