INDIPENDENTI DA CHI?
Iniziamo il nostro tuffo nel mondo dell’indie partendo da una doverosa definizione: originariamente il termine era riferibile, soprattutto negli anni ’80 e ’90, al mondo della musica e soprattutto ad un insieme di generi caratterizzati da una certa indipendenza, reale oppure percepita, dalla musica pop e dalla cultura cosiddetta mainstream ( di massa, ndr). Successivamente l’accezione del termine ha oltrepassato il contesto puramente musicale diventando un vero e proprio stile di vita.
Inizialmente l’indie nacque dal lavoro delle piccole case discografiche che si distinguevano dalle major, dando la possibilità alle band sconosciute di produrre un disco, queste erano solitamente gestite da poche persone, spesso nel garage di qualcuno, che avevano uno stretto rapporto con una determinata scena musicale. L’attenzione per la purezza della missione creativa del lavoro prodotto era predominante rispetto alla sfera commerciale. C’era un microcosmo fatto di collaborazione e creatività fra le diverse case che si sponsorizzavano a vicenda.
I sociologi Peterson e Berger affermavano che le etichette indipendenti hanno rappresentato il motore dell’innovazione musicale fin dalla loro prima apparizione, che coincide con la diffusione del rock and roll verso la metà degli anni cinquanta, con l’affermarsi, per esempio, dell’etichetta Sun Records che pubblicò i primi dischi di Elvis Presley.
Tutto bello, ma purtroppo l’indole umana, diretta verso il mero profitto, ha trasformato un fenomeno di nicchia e prettamente musicale, in una tendenza a livello mondiale. E fu così che l’indie divenne moda. Inizialmente con l’esplosione del grunge ( che rispetto al primo indie aveva un suono più duro e aspro) e poi con tutti quei generi che si distaccavano dal pop delle major e dalle mode precedenti. Tutto ciò era accolto, tanto dalla critica quanto dal pubblico, a braccia e portafogli aperti.
Essere alternative: un’opportunità che le case discografiche non si lasciano sfuggire, a discapito di tutti quegli adolescenti e trentenni (un po’ tardi) che viaggiano a bocca aperta, pronti ad abboccare all’amo da pescatori ben più furbi di loro. Tendenza a livello mondiale dicevamo, quindi: fu l’inizio di quel fastidiosissimo vestirsi, atteggiarsi e comportarsi tutti nello stesso modo, tipico delle mode a livello globale, tanto per soddisfare l’insensata esigenza di appartenere a qualcosa di cui non si sa bene nemmeno l’origine e la ratio.
Indie-moda un ossimoro che ben esprime l’assurdità del fenomeno che si sviluppa soprattutto negli anni 2000.
Se positivo è far conoscere a livello mondiale la musica di artisti prettamente indie rock come i Franz Ferdinand o gli Arctic Monkeys, certamente meno positivo (per la dignità del genere umano) è vestirsi e comportarsi tutti nello stesso modo e poi proclamarsi “indipendent”. La genesi di una generazione che potremmo definire radical chic: alternativi ma fighetti, intellettualoidi esteticamente curatissimi, tipini da caffè letterario.
Negli ultimissimi anni la moda indie si sta diffondendo a macchia d’olio, raccogliendo al suo interno metallari, rapper, emo e truzzi della prima generazione, tanto che la CIA ha elaborato un piano di difesa contro un possibile attacco di massa all’umanità (che neanche in “the walking dead”) non ancora contagiata da parte di questa categoria sociale. Obiettivo dei servizi segreti è ridurre al minimo l’epidemia e debellarla nel giro di pochi anni. L’arma più terribile di cui si servono attualmente gli indie boys per terrorizzare il mondo sono i social network, luoghi nei quali riversano frasi contenenti le perle della loro illuminata saggezza anti mainstream (su dei portali con veramente pochissimi iscritti) ,trattasi di frasi che vanno dal filosofico al profano fino ad arrivare al quasi sarcastico, avendo come oggetto spesso imprecazioni contro qualcosa o qualcuno su cui neanche credono. Frasi che nessuno è in grado di capire. Nemmeno loro. L’unica cosa in cui credono profondamente è l’autocelebrazione dell’Io, la convinzione di essere i migliori, parlare tutti con lo stesso linguaggio e la vitale ed irresistibile esigenza di andare almeno una volta nella vita in pellegrinaggio a Londra.
Sorge spontanea a questo punto una domanda: ma indipendenti da chi?
E’ proprio questo il tallone d’Achille dell’indie: l’incapacità di essere diverso da se stesso, di sperimentare, di progredire: sembra tutto finito, un cerchio chiuso (come un telefilm di cui si conosce già la puntata successiva). Non tanto da un punto di vista commerciale, perché il genere “tira” ancora, quanto da un punto di vista strettamente artistico e culturale. L’indie non rappresenterà il punto più alto ma nemmeno quello più basso della storia della musica. Possiamo solo sperare che le giovani band protagoniste della scena non si accontentino di quanto fatto e sentito finora, ma trovino soluzioni nuove per tenere vivo il genere: per ora, si ripercorrono strade già battute , anche se con gusto. Il problema sta nell’omologazione popolare che questa tendenza crea, rendendo difficoltoso trovare qualcuno di veramente originale sia musicalmente che culturalmente, in grado di portare qualcosa di nuovo.