Accadde oltre quarant’anni fa: nel gennaio 1970 veniva pubblicato “The Madcap Laughs”, esordio discografico di Syd Barrett, indimenticato protagonista del rock mondiale il cui stile chitarristico fu talmente innovativo –per via del particolare approccio sperimentale a dissonanze e distorsioni– da aver una considerevole influenza su artisti successivi, quali David Bowie, Jimmy Page e Brian Eno.
Roger Keith Barrett –questo il vero nome di chi viene da tutti ricordato come il fondatore e primo componente dei Pink Floyd– sin da adolescente si era dimostrato interessato all’arte, dando da subito ragione a chi già lo considerava genio lunatico: all’età di sedici anni compone prima una stranissima canzone –“Effervescing Elephant”– e poi la musica per una poesia tratta dall’Ulysses di James Joyce, del quale tornerà ad interessarsi cinque anni più avanti quando decide di chiudersi nella sua folle solitudine interrotta solo dalla registrazione di “The Madcap Laughs”.
E’ il 1968. Lasciatasi alle spalle l’esperienza con i Pink Floyd, Syd Barrett inizia le sessions di registrazione del suo primo album da solista che porteranno a raccogliere dell’ottimo materiale. A causa dell’imprevedibilità di Barrett e alla sua schizofrenia correlata all’uso di droghe, tutto viene però abbandonato per poi essere fortunatamente ripreso, a distanza di circa un anno, dal produttore Malcom Jones: questi prende in mano il progetto discografico e Barrett ricomincia a lavorarci, innestando nuovo materiale alle precedenti registrazioni. Alle nuove sessionsvengono chiamati a partecipare Robert Wyatt, Mike Ratledge e Hugh Hopper (membri dei Soft Machine, band che insieme ai Pink Floyd rappresentò la prima ondata della sperimentazione psichedelica a Londra) nonché membri dei Quivere degli Humble Pie; alla fine si aggiunsero anche Roger Waters e David Gilmour (sostituto di Barrett, nei Pink Floyd), nonostante fossero nel pieno delle rifiniture dell’ambizioso album intitolato “Ummagumma”.
Nell’agosto 1969 fu dunque ultimato “The Madcap Laughs”, album caratterizzato da tredici canzoni originariamente registrate prima da Barrett, con la sua chitarra acustica, e poi meglio riassemblate dai musicisti di supporto di cui si diceva appena sopra. Qualche mese dopo, esattamente a novembre e prima d’essere immesso sul mercato nel gennaio 1970, l’album viene preceduto dalla pubblicazione del singolo “Octopus”, traccia originariamente concepita con il titolo di “Clowns and Jugglers”. “The Madcap Laughs” fu ben recensito ma va detto che alcuni critici non mancarono di segnalarne alcuni aspetti scarni e/o arrangiati con sufficienza, riconducendoli alla precarietà dello stato psicologico in cui, a quel tempo, versava Syd Barrett.
“The Madcap Laughs” si apre con l’incanto e la magia del country-folk di “Terrapin”, subito seguita da “No Good Trying” e “Love You”, entrambe caratterizzate da uno svagato cantato ed una struttura che sovverte ogni ordine tipico. E poi, eccola qua: la folle atmosfera psichedelica di “No Man’s Land” e, soprattutto, della meravigliosa “Dark Globe”, gioiello peraltro già presente sulla b-side del singolo “Octopus”. Quest’ultimo –che contiene il verso “The madcap laughs at the man on the border“, da cui David Gilmour tirò fuori in modo casuale il titolo dell’album– apre il secondo lato della versione in vinile dell’album di Barrett, dopo il boogie sobrio di “Here I Go” che, invece, ne chiude il lato A. Arriva quindi un altro gioiellino: il madrigale di “Golden Hair”, il cui testo attinge dritto dritto –ancora una volta– da Joyce (quello di “Chamber Music”); a seguire, “Long Gone”, luogo in cui s’intrecciano due cantati distanziati di un’ottava. “She Took A Cold Long Look“, è un folk disincantato sul mondo dei sogni, così come disincantato è il vibrante ed ennesimo country-folk destrutturato di “Feel“. L’album si conclude con i folli fragori di “If It’s In You” –nient’altro che un semplice demo con Barrett da solo, alla chitarra– e “Late Night”, con un cantato sospeso su atmosfere come sempre acide.
L’esordio discografico di Barrett rappresenta, ancora oggi, un documento allucinato e geniale, a firma dell’artefice di quella che può essere considerata come la rivoluzione psichedelica della seconda metà degli anni Sessanta. Ma “The Madcap Laughs” rappresenta, soprattutto, un tassello importantissimo della storia del rock poiché testimonianza della dolorosa e difficile condivisione del mondo dello spettacolo con quello dell’arte e della vita in sé. Una testimonianza purtroppo ripetutasi tristemente negli anni a venire, a conferma che il crazy diamond –il diamante pazzo ricordato nel ’74 dai Pink Floyd– non fosse solo quello risplendente tra le mani di Syd Barrett.