Il 5 febbraio di trentacinque anni fa i Cure ‘sbarcavano’ negli USA con “Boys Don’t Cry”, riedizione del loro album di debutto “Three Imaginary Boys”: la Fiction Records, label che li aveva sotto contratto, aveva infatti deciso di riconfezionare l’esordio di Robert Smith & Co. modificandone la tracklist che, a differenza del vinile pubblicato in terra d’Albione, avrebbe incluso tre singoli precedentemente pubblicati (“Killing An Arab”, “Boys Don’t Cry” e “Jumping Someone Else’s Train”). La scelta del repackaging non era però correlata solamente al prodotto in sé ma anche al fatto che i Cure non erano rimasti molto soddisfatti di “Three Imaginary Boys”; pertanto, la ristampa americana apparve loro come una vera e propria opportunità di ‘rimescolare le carte’, inserire nuove tracce ed ometterne altre.
“Boys Don’t Cry” parte bene già dalla copertina: una sorta di paesaggio desertico, estremizzato dalle geometrie di palme e piramidi; ma parte bene anche e soprattutto grazie alla titletrack, permeata di poesia adolescenziale ed ancor oggi riconosciuta come il brano maggiormente noto dei Cure. La seconda traccia del vinile è rappresentata da “Plastic Passion“, una post-punk track dal ritmo sincopato e che attesta il primo approccio personale ed innovativo di Robert Smith ad un nuovo modo di suonare la chitarra. E’ dunque il turno di un gioiellino compositivo quale “10:15 Saturday Night” –indimenticabile la trasformazione della narrazione del martellante sgocciolare in piccoli tocchi di chitarra–, già pubblicato come b-side del singolo “Killing An Arab”; segue “Accuracy“, canzone che introduce la componente ‘arabeggiante’ del disco. Dopo “Object” –forse l’episodio meno riuscito sia di questo che dell’originario album– è il turno di un altro singolo, “Jumping Someone Else’s Train“: un ballabile ‘ferroviario’ (!?!) venuto fuori grazie all’ottimo lavoro di basso. Il lato A del vinile si chiude con una ”Subway Song“ di difficile analisi: dopo un morbido andamento, impercettibile fino alla dissolvenza totale, l’ascoltatore è reso partecipe dell’improvviso arrivo di urla agghiaccianti, ‘giusto’ epilogo della narrazione riguardante un pedinamento notturno.
“Killing An Arab” apre in maniera memorabile la b-side di “Boys Don’t Cry”: il brano rappresenta un vero capolavoro compositivo e diverrà famoso anche per spiacevoli motivazioni (i Cure furono ingiustamente accusati di posizioni anti-islamiche). Su medesimi livelli qualitativi si mantiene “Fire in Cairo“, brano anch’esso dalla falsariga ‘arabeggiante’. Le problematiche adolescenziali tornano, dopo lo scanzonato andazzo di “Boys Don’t Cry”, in “Another Day”: è l’inizio delle future frustrazioni e malinconie del Robert Smith più ‘grigio’ e sofferente. Si riprende subito quota con l’esuberanza di “Grinding Halt” e le rilevanti tematiche di “World War”, fino ad arrivare alla conclusiva “Three Imaginary Boys“, manifesto oscuro e rarefatto che taglia definitivamente qualsiasi residuo di radice post-punk: il cantato e la musica sono dilatati e remoti, le atmosfere –tristi– sono un’anticipazione di quelle che la mente del leader dei Cure ci avrebbe regalato negli album successivi.
“Boys Don’t Cry”, tappa discografica rilevante per la storia dei Cure –seppur acerba e in parte sottotono–, non è altro che un ridisegno di una malinconia poi ripresa e trasformata in arte nell’album “Pornography”, del 1982. Ascoltato ancor oggi, il ‘gemello diverso’ di “Three Imaginary Boys” rappresenta il passaggio da un’adolescenza sbarazzina –ma consapevole– ad una fase di vita più riflessiva, fatta dell’introversione e della disillusione degli adulti: in poche parole, il percorso che Robert Smith (ed ognuno di noi, coetaneo o meno dei Cure) ha dovuto intraprendere per poter affrontare gli anni a venire con pie’ fermo e schiena dritta.