“Pezzi di Storia” di questa settimana vi propone uno dei più importanti dischi indie degli anni Ottanta: “Psychocandy”, dei Jesus and Mary Chain. Il pretesto per parlarne ci viene fornito da una notizia di questi giorni: a novembre la band di Glasgow tornerà infatti a calcare i palchi per riproporre l’intera scaletta dell’album che il prossimo anno compirà trent’anni…

Psychocandy” venne pubblicato nell’85 dalla Blanco y Negro –una sussidiaria della WEA Records– ad un anno dalla formazione della band messa in piedi dai fratelli Reid (Jim e William, rispettivamente voce e chitarra) nonché da Douglas Hart al basso e Bobby Gillespie alla batteria (poi divenuto cantante e leader dei Primal Scream). I Jesus and Mary Chain erano stati appena scoperti dalla Creation, label scozzese che aveva pubblicato, nell’arco di sei mesi, i loro tre primi singoli grazie ai quali la band si era imposta da subito all’attenzione della critica britannica. Già dai primi passi i fratelli Reid dimostrano di aver tratto utile insegnamento dall’esperienza rock degli ultimi vent’anni, creando rumori psichedelici e utilizzando esasperatamente feedback e distorsioni per canzoni di tre minuti e tre accordi. La loro è una rivisitazione caotica e nevrotica di un certo rock britannico –comprendente dark, electro-wave e pop-rock– ridotto ad una serie di stereotipi lontani da possibili salti di qualità.

L’album d’esordio dei Jesus and Mary Chain parte subito con un capolavoro, “Just Like Honey“, considerato il manifesto di quel nuovo sottogenere chiamato shoegaze (“inventato” proprio da loro e poi continuato dai My Bloody Valentine): dalla commistione di rumore e melodia la band scozzese riesce a tirar fuori una canzone –che molti ricorderanno anche perché successivamente inserita nella stupenda colonna sonora del film “Lost In Translation”, del 2003– fatta di un sound sfigurato da accordi e vocalità quasi spettrali, batteria simile a catene percosse su un tempo tenuto in maniera semplice ma penetrante da un basso con retaggi dark. Poi è il turno di cavalcate come “The Living End” subito interrotte dai rallentamenti granitici di “Taste The Floor”, brano seguito da un altro ‘gioiellino’ quale la trascinante “The Hardest Walk” nonché dalla trasognante e malinconica “Cut Dead”. Le distorsioni di “In A Hole” e le frenesie di “Taste Of Cindy” chiudono il lato A dell’originaria versione su vinile.

La B-side di “Psychocandy” si apre con “Never Understand” –inizialmente pubblicata come singolo– e “Inside Me”, due brani di tutto rispetto e propedeutici all’ennesimo innesto di rumore e melodia di “Sowing Seeds” (che sembra essere una sorta di “Just Like Honey” parte seconda) nonché ai ritmi serrati di “My Little Underground” e agli estremismi sonori di “You Trip Me Up” –in precedenza stampato dalla Creation come terzo singolo– e di quella “It’s So Hard” che, anticipata dalla melodica “Something’s Wrong”, chiude il disco con modalità tipicamente dark caratterizzanti una splendida linea di basso.

Alla fine dell’ascolto si rimane sconvolti, frastornati e con il fruscìo di decibel ronzanti per un bel po’ in testa, quasi a ricordare atmosfere e battiti ipnotici di un album che ha permesso ai fratelli Reid di entrare nella storia del rock direttamente dall’ingresso principale. E ci sono entrati sfondando una porta che ha consentito ai più recentishoegazer (Dum Dum Girl, The Raveonettes, Deerhunter, The Vaccines, Veronica Falls) di poter accedere a tutta una serie di ambientazioni oscure, tenui melodie e densi strati di feedback dei quali –oggi– non staremmo qui a parlarne se i fratelli Reid non ci avessero regalato un discone come “Psychocandy” e buona parte della loro successiva discografia… Long live shoegaze!

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