Anno 2000: inizia quel nuovo secolo che vedrà un nuovo nulla mescolarsi col nuovo niente. E questo in parecchi ambiti, compreso quello musicale dove però l’unica eccezione è, probabilmente, rappresentata dai Radiohead. Perché? Perché Thom Yorke e soci sono, ancor oggi, la band che più volte ha saputo come e quando reinventare se stessa: lo ha fatto una prima volta –nel 1997, con “Ok Computer”– perché l’eccessivo successo dei primi due album (“Pablo Honey”, del ’92 e “The Bends” del ’95) le stava stretto e l’ha rifatto nel 2000 con la pubblicazione di “Kid A”, uno dei più grandi azzardi –nella storia del rock– volto a dare un colpo di spugna alla magnificenza “involontariamente” conquistata.

Alla fine dei Novanta, glorificati per hits come “Karma Police”, tutti pensavano che i cinque dell’Oxfordshire avrebbero continuato a sfornare grandi classici di successo sullo stile del più venduto singolo tratto da “Ok Computer”. Ed invece successe esattamente il contrario: il 2 ottobre 2000 viene dato alle stampe “Kid A”, testimonianza della continua ed ulteriore evoluzione dello stile musicale dei Radiohead, influenzato dall’elettronica ed incredibilmente dalla musica classica contemporanea nonché dal free-jazz. I fans sono spiazzati e si ritrovarono talmente disorientati e scoraggiati da indurre alcuni di loro a non comprare –a torto– “Amnesiac” (2001), album forse meglio riuscito del predecessore e contenente brani registrati durante le stesse sessions ancora una volta prodotte da Nigel Godrich, per la Parlophone Records.

Già dalla copertina –fortemente ispirata alle opere di Naomi Klein, scrittrice canadese no-global– “Kid A” appare subito freddo, quasi invernale (non a caso viene pubblicato nei primissimi giorni di ottobre): e fredda (ed ipnotica) è l’apertura affidata ad “Everything In Its Right Place” e ai suoni di un carillon caratterizzante la titletrack, il cui titolo si riallaccia ad un’idea di concept album con tema la nascita del primo bambino clonato (il “bimbo A” del titolo, per l’appunto). La terza traccia è rappresentata dall’inquietante e percussiva “The National Anthem“, seguita dalla dolce e straniante ballata intitolata “How To Disappear Completely“, quindi dalla strumentale “Treefingers” che funge da chiusura a quello che può considerarsi il primo atto dell’album. Il secondo si apre in maniera più calda, rispetto alla prima, grazie ad “Optimistic“, forse l’episodio più tipicamente Radiohead: bel canto, chitarre acuminate, distorsioni ben dosate, strofe azzeccate e finale liberatorio. A seguire, “In Limbo” ed il capolavoro dell’album: “Idioteque“, un brano quasi “sintetico” per via dei geniali campionamenti innestati ad una performance vocale sfrenata e sconvolgente, fino a sfumare nei tempi dispari di “Morning Bell” (da qualcuno definita come “una specie di elettroencefalogramma per organo e batteria”, poi riarrangiata per il successivo “Amnesiac”). Dopodiché arriva la pacata chiusura, affidata a “Motion Picture Soundtrack“.

 

Con “Kid A”, un disco che pretende attenzione sin dal primo ascolto, i Radiohead riuscirono dunque nell’ennesima impresa di trasporre in musica tutte le ansie, loro e di un’intera generazione: quella del “bimbo A”, il capostipite dei nuovi e giovani fans che avrebbero poi assistito alle altre evoluzioni della band dalla quale ci si aspetta adesso la pubblicazione di un’ennesima meraviglia. Nel frattempo deliziamoci con “Tomorrow’s Modern Boxes”, secondo lavoro da solista per Thom Yorke, rilasciato in forma gratuita su BitTorrent e a stretto giro dall’uscita –gratuita ma fallimentare– del nuovo album degli U2 via-iTunes.

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